Ambito/Autore : Ambito trentino
Periodo storico: 16° secolo
Anno: 1570- 1580
Soggetto: Angelo annunciante, Madonna annunciata
Luogo di conservazione: Arco, Santuario delle Grazie, coro
Materia e tecnica: olio su tela, cm 160 x 105 (ciascuno)
Descrizione:
Questi dipinti costituivano in origine le ante dell’organo della primigenia chiesa minoritica ad Arco e rappresentano un unicum nel panorama francescano tridentino. Come posto in luce da Stenico (2004b, pp. 80-85), non rientra nella sensibilità Osservante l’adozione di siffatti strumenti musicali ad accompagnamento del culto nelle chiese dell’ordine. Ancora una volta si tratta di una vistosa peculiarità dovuta al generoso ma ‘incombente’ patronato artistico dei conti d’Arco, che non trova paragone in nessuna delle chiese francescane trentine. In merito alla proprietà dei giurisdicenti è esplicita la testimonianza di padre Ignazio Bampi, che nell’anno 1690 annota: “In questa chiesa v’è l’organo assai buono e di mediocre grandezza, che per essere in dominio dell’illustrissimi fondatori, non s’ha potuto levarlo”. Lo strumento e la cassa dell’organo cinquecentesco non ci sono pervenuti registrandosi numerosi interventi di modifica nel XVIII secolo, quindi vere e proprie sostituzioni nell’Otto e Novecento. Tuttavia l’accezione dimensionale cui allude il religioso (mediocre grandezza) corrisponde molto bene alla larghezza delle due ante d’organo (in totale poco più di due metri). Una diversa questione è sollevata dalla possibilità di una datazione dello strumento originario ad inizio Cinquecento, al tempo dell’Osservanza oppure nel 1564-1570, come volle padre Angelico Soriani, mentre ci sembra frutto di un lapsus l’indicazione riportata da una relazione del 1723 che, nello specificare la presenza sulla cassa di stemmi, scrive di “armi de’ Signori Arciduchi d’Austria” (si veda ancora Stenico). In ogni caso, il quadro stilistico-figurativo delle nostre ante d’organo segue a ruota la cronologia dell’organo tra settimo e ottavo decennio del XVI secolo.
Le portelle recano ancora l’incorniciatura bruna originale. Il recentissimo restauro (2013) ha restituito alle tele una migliore leggibilità benché il loro stato conservativo già in precedenza non fosse seriamente compromesso. L’impaginato verticale delle scene con l’arcangelo Gabriele da un lato e la Vergine devotamente inginocchiata, dall’altro, diviene il pretesto per inscenare una foltissima gloria di angioletti musicanti che solcano nubi fosche e dense, squarciate dai bagliori di una luce sulfurea che attraversa in tralice i pannelli figurati. Sul piano formale, il dato che più di altri si impone è il modulo notevolmente espanso delle figure, in particolare dell’angelo annunciante, le cui masse paiono dilatate fino all’anamorfismo, con una predilezione per il tratto orizzontale che viene ulteriormente accentuato dall’incessante veleggiare della cintola cangiante. L’approccio assai robusto ed energico, scandito da una contrastata regia della luce, si accorda con il piglio fiero e duro dei volti – severissimo e marcato l’ovale della Vergine – ma poi si assottiglia, pur rimanendo schietto, nei caldi e intimi saggi descrittivi delle stoffe e dell’arredo. E qui eccelle per icastica verità lo splendido vaso in ceramica decorato da frutta che riveste, nell’economia dei dipinti, tutt’altro che un mero elemento decorativo. È anzitutto segno distinto di alcuni epiteti mariani e lauretani, Maria come “Vas spirituale” o “Vas honorabile (2 Tm, 2, 20; Rm 9, 21)”, colei che, ripiena di Spirito Santo, è la più nobile dimora di Dio. L’unione ovvero il Mistero dell’incarnazione annunciato dall’arcangelo Gabriele è suggellato dalle piccole, umili infiorescenze bianche che sbocciano tra il fitto fogliame lucido: sembrerebbero fiori di zagara, tradizionale simbolo nuziale, quanto mai eloquenti nell’etimologia araba (splendere, sfavillare di bianco), da sole un elogio alla purezza di Maria. Dal fiore fecondo matura il frutto, fortemente richiamato nella decorazione del bianco vaso: frutti che evocano l’incarnazione ma anche la Passione e quindi la Redenzione, inverata dalla risposta di Maria all’Annuncio.
Il brano si profila da più punti di vista un’opera nell’opera, è indice di disinvoltura pittorica come pure di un’attenzione al vero che invece contrasta con l’approccio di maniera degli angioletti nella parte superiore. Questi erculei putti, nei quali scorgiamo insistiti esercizi di stile in chiave manierista ed alcune immissioni colte (si veda solo nell’anta di destra l’angelo atteggiato come il San Sebastiano di Tiziano nel polittico Averoldi), ci spingono in modo inequivocabile per una rielaborazione sui generis della temperie mantovana. Benché la cronologia si approssimi alla generazione di Teodoro Ghisi, Lorenzo Costa il Giovane, Ippolito Andreasi, il mondo sofisticato di questi raffinati interpreti ci pare come sbarrato da un impeto rustico di differente matrice, ancora legato alla lunga eco degli epigoni veronesi e mantovani di Giulio Romano, inequivocabile nella grottesca tempra espressiva, nelle muscolature tese e ipertrofiche, nei profili netti e duri, talora vagamente classicheggianti ancorché estrosamente risolti. Ben poco o nulla trapela del Manierismo virgiliano al tempo di Guglielmo Gonzaga in questo originale pittore, il quale si deve peraltro far perdonare una certa altalenante riuscita. La percezione di chi scrive è che ci si trovi dinanzi ad uno dei più tardi frutti della scuola d’Arco, sulla quale ancora gravano equivoci ed ombre che impediscono di scindere e focalizzare le personalità di Dionisio Bonmartini e Daniele Sandelli il Giovane (mi riservo di tornare sulla questione in altra sede discutendo nuovi elementi di indagine). La durezza dei volti, come pure l’insistita e a tratti incoerente plasticità degli angioletti, sono elementi che evocano ad esempio il paliotto di Caneve raffigurante la Sacra Famiglia con San Giovannino, San Rocco e San Sebastiano (si veda l’immagine in Turrini 1994, p. 38) la cui idea compositiva di base è significativamente desunta da una stampa di Giorgio Ghisi ma di fatto stravolta da un piglio grottesco e fortemente ponentino.
Non va infine taciuto che questi brani pittorici dovettero esercitare una certa influenza su Giovanni Antonio Zanoni, pittore di Arco attivo nel primo quarto del Seicento le cui migliori opere (peraltro inferiori a queste ante d’organo) esibiscono il riflesso dell’ambiente veronese e mantovano. Non pare invece condivisibile l’ipotesi di un intervento primo ottocentesco (in ogni caso irrilevante) di Giuseppe Craffonara, ipotizzato in fase di restauro in relazione agli angeli in gloria (gentile comunicazione di padre Saverio Biasi).
Fonti: ACPFM, busta 306, Inventario 1927, n. 39-40; busta 275, Inventario 1962, p. 636, n. 28-29; SBC Floris 1986/ OA/ 00051545-546; ACSMG, Inventario 2013, n. 60-61.
Bibliografia: Stenico 2004b, p. 453; Retrosi 2007, p. 190.