Ambito/Autore : Ambito veneto (?)
Periodo storico: 18° secolo
Anno: 1700-1725
Soggetto: Mosé calpesta la corona del faraone
Luogo di conservazione: Trento, convento di San Bernardino, infermeria, II piano, corridoio
Materia e tecnica: olio su tela, cm 61 x 80
Provenienza: Villazzano, convento-collegio, 1993; Trento, chiesa di San Pietro (?), ante 1969
Descrizione:
Un’appendice del 1969 all’inventario delle opere d’arte nel convento-collegio di Villazzano, parzialmente riportata da Stenico, segnala che il dipinto fu donato da padre Massimino Ghetta contestualmente alla dispersione di alcune opere di pertinenza della chiesa di San Pietro a Trento. Il documento precisa: “proviene forse dalla sagrestia della chiesa di S. Pietro in Trento salvato da padre Massimino dalla recente ondata iconoclastica”. In ogni caso non disponiamo di alcuna controprova documentaria per attestare l’esistenza del dipinto nella sacrestia di San Pietro. La tela era stata restaurata un anno prima da Carlo Andreani, su commissione dello stesso padre Ghetta, come attesta la ricevuta del restauratore nella quale si ascrive il dipinto al pittore Rovisi. Da qui l’attribuzione nell’inventario “al tiepolesco Valentino Rovisi”.
La nota del 1969 individua dubitativamente il soggetto come Giudizio di Salomone, postillando tuttavia la possibile identificazione quale Martirio dei santi Quirico e Giulitta, (la figura femminile era interpretata come Giulitta nell’atto di proteggere il fratellino Quirico). L’inventario allegato si limita invece a descrivere visivamente la scena come “Sicario che tenta di pugnalare un bambino”.
Il vero e inconsueto soggetto, Mosé calpesta la corona del faraone, non è contemplato dalle Sacre Scritture ma si trova nelle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio, un’opera scritta nel 93-94 d.C. Lo storico giudeo narra nel II libro che Thermut, la figlia del faraone, adottato il piccolo Mosè, lo condusse all’età di tre anni al cospetto del padre. Il faraone gli mise sul capo la corona ma il fanciullo la gettò a terra calpestandola. Fu allora che lo scriba dei sacrifici, interpretando il fatto come augurio nefasto per il futuro dell’Egitto, si scagliò contro Mosè istigando il sovrano perché lo facesse uccidere. Il racconto è qui fedelmente ripercorso e fermato nel momento di maggior concitazione, con Thermut pronta a difendere il piccolo dal pugnale del consigliere.
La scena si svolge all’interno di una sontuosa ambientazione che tradisce il gusto per le composizioni prospettiche tardo barocche. Il cuore del racconto si stempera nell’affollata quinta scenica che con abbondanza di dettagli intende restituire il fasto dell’improbabile residenza del faraone: il fondale assai classico popolato di statue, il solenne colonnato, il padiglione con ricchi drappi broccati sorretti da colonne salomoniche, nonché il servitore moro in primo piano. Non è in alcun modo possibile avallare l’attribuzione al tiepolesco Valentino Rovisi: oltre a innegabili divergenze di ordine stilistico, nell’ossatura compositiva della tela si individuano caratteri meno avanzati, legati alla pittura di primo Settecento, non privi di riflessi centroitaliani. A questo proposito è possibile cogliere parziali affinità con le opere del veronese Francesco Perezzoli, detto il Ferrarino (1661-1722), nella cui parabola artistica gli iniziali spunti carpioneschi cedono il passo a stimoli culturali bolognesi, romani e infine lombardi legati al suo tardo soggiorno milanese (si veda Berti 2011). Benché questa tela non presenti le finezze del veronese, sembra di poter ravvedere un analogo milieu culturale che rende però molto ardua la puntuale identificazione dell’autore.
Fonti: ACPFM, Cronaca di Villazzano, 1959-1977, II, p. 38, n. 19; p. 335.
Bibliografia: Stenico 2009, p. 86.